L’arte del grande attore è misteriosa. Ormai è molto lontana dagli spettacoli che abbiamo sotto gli occhi, ed è affascinante come tutto ciò di cui il tempo non riesce ad abolire del tutto la memoria. È stata un’arte ambigua ed eloquente, di personaggi pieni d’ombra, capaci di instaurare un rapporto di complicità con gli spettatori e di lottare con loro. Dei suoi metodi sappiamo pochissimo, quasi sempre al livello degli aneddoti e della superficie. Come pensassero, o si preparassero attori come Rachel, come Irving, come Eleonora Duse, come riuscissero a creare l’effetto di sussurrare all’orecchio di ciascuno dei loro spettatori, possiamo arguirlo solo mettendo assieme fraintendimenti e testimonianze. E benché il tempo passato sia poco, ci troviamo nella stessa condizione di archeologi che abbiano letto le descrizioni di statue perdute e ritrovino poi qualche frammento di marmo senza più i suoi colori. Così, come spesso avviene quando il senso dell’assenza prevale, il gusto del racconto prende il sopravvento, con le sue digressioni e diramazioni, diventa il piacere di narrare le storie portentose di questi grandi personaggi e di chi li guardava.
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